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Cinema e Ambiente: una relazione multiforme. 18 film per riflettere sulla crisi climatica

Cinema e Ambiente: una relazione multiforme. 18 film per riflettere sulla crisi climatica

di Ginevra Amadio.

Cinema e Ambiente: una relazione multiforme. 18 film per riflettere sulla crisi climatica

L’odierna sensibilità ambientale impone un’indagine rigorosa di quelle che il critico letterario Remo Ceserani definiva “convergenze”, ovvero le intersezioni tra territori, gli incroci tra discipline tesi a una contaminazione dello sguardo, alla messa a fuoco di un’urgenza che le categorie neutre, già predisposte, impediscono di realizzare. Il rapporto tra cinema ed ecologia si pone, in tal senso, come questione centrale, trattandosi dell’intreccio più rappresentativo di quello sforzo volto a sondare l’innegabile fragilità del patrimonio ambientale, la sua degradazione, il passaggio e l’azione dell’uomo sulla terra.

La scelta di campo non è casuale, poiché le rappresentazioni filmiche costeggiano quella zona dai contorni labili che è l’immaginario, serbatoio di forme e motivi variamente declinabili, impossibile da ricondurre a un grado zero e pertanto capace di intercettare paure, immagini e rimossi.

L’immaginario, come noto, è una miniera profonda, sia perché contiene sintomi, spie e motivi attorno a cui si articola una trama complessa, sia perché presenta margini slabbrati, soggetti alle intersecazioni cui si accennava in precedenza, e dunque passibili di apparentamento con situazioni traumatiche, di colpa o shock. «Si è passati dai campi di sterminio allo sterminio dei campi», scriveva del resto Andrea Zanzotto, una delle voci più rappresentative della poesia italiana del Novecento, cantore delle scorie e dei detriti, capace di focalizzare la perdita imperdonabile di una bellezza pura, il massacro del paesaggio che è oltraggio alla collettività.

Per decifrare la complessità di una natura piegata all’intervento umano è dunque opportuno ricorrere a questi strumenti “laterali”, a narrazioni slegate dal linguaggio cronachistico che fungano da porta d’accesso a scenari altrimenti invisibili, destinati a muoversi sulla superficie apparentemente piana della realtà.

La paura, si diceva in precedenza: o meglio un cortocircuito tra emotivo e razionale che nasce dalla vulnerabilità, dal prendere coscienza della frattura tra sé e il mondo, tra il nostro io e un noi globale, che è spesso altro da sé. Il cinema carpisce questo sentimento, lo rende visibile mediante un’immersione nel vuoto, adottando un linguaggio ora oscuro ora agile, costellato di immagini che solleticano la coscienza, conducono a un’iniziazione che è il fine ultimo del mistero, una presa di coscienza atta a rileggere la realtà.

L’interrogarsi sulla natura della relazione umana con l’ambiente consente, inoltre, la costruzione della base etica del cinema green, in cui ogni rappresentazione – nell’infinita variazione di temi e forme – non può che essere gnoseologica, tesa cioè allo sviluppo di un discorso politico (di ri-posizionamento nei confronti della natura), estetico, sociale. In questo senso, da eccellente costruttrice di immaginari, la settima arte si pone come una porta d’accesso alla nascita di una “nuova scienza educativa”, all’urgenza di una giustizia ambientale che richiede un impegno culturale, per risvegliare le coscienze.

Pienamente calato nel discorso eco-critico (lavorando al confine con la letteratura, altra miniera di simboli), il cinema diviene specchio delle questioni ambientali in corso nonché stimolo per una loro espansione, per un discorso potenzialmente interminabile. Può consentire infatti di mettere a fuoco le mutazioni subite da un dato ambiente (si pensi a Una scomoda verità di Davis Guggenheim, 2006, ma anche alla Capitale “ibrida”, già in mano ai palazzinari, di Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli, 1961); di individuare una nuova geografia della società con i suoi bagliori di attivismo (Erin Brockovich di Steven Soderbergh, 2000, La città ideale di Luigi Lo Cascio, 2012); di riflettere sull’alienazione della modernità, sulle conseguenze dell’industrializzazione nelle vite dei singoli e dell’ambiente (Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, 1964, o ancora Delitto d’amore di Luigi Comencini, 1974, sulle conseguenze mortifere dei veleni in fabbrica); di immaginare un mondo post-umano, in bilico tra distopia e anticipazione della realtà (Blade Runner di Ridley Scott, 1982).

Appare chiaro, da questi brevi rimandi, il carattere interstiziale del cinema green, la sua capacità di lavorare dal margine, attraversando generi e formati, quasi a “meticciare” la sua identità per rendere impossibile l’identificazione di un genere, di un sistema di norme entro cui ricondurre le singole pellicole. Certo è che, nel tempo, la tematica ambientale ha rappresentato una presenza mai occasionale, bensì finalizzata a intercettare nuove sensibilità, timori crescenti, sino alla costruzione di una coscienza ecologica propria della cinematografia militante degli anni Sessanta e Settanta. È il caso, ad esempio, di Chinatown di Roman Polanski, uscito nel 1974 e incentrato su un furto di acque che ricalca la vicenda delle California water wars, ovvero le “guerre” idriche per approvvigionare il bacino di Los Angeles. O del capolavoro Il seme dell’uomo di Marco Ferreri (1969), un viaggio al termine del mondo, rappresentazione sarcastica e raffinata di un’apocalisse imminente.

Esiste poi un cinema in grado di fissare la crisi ambientale come un referto impietoso, una fotografia in divenire capace di sollecitare le coscienze nel momento stesso della rappresentazione. La forma documentario consente infatti di immergersi in una realtà già minacciata, in cui il teatro della scena è identificabile, “fisicamente” avvertito come prossimo. Già nel 1992 Werner Herzog aveva mostrato la forza distruttiva dell’uomo in Apocalisse nel deserto, aprendo la strada a riflessioni sul rapporto individuo-ambiente poi sviluppate in opere quali Il Grande Nord di Nicolas Vanier (2004) girate tra i ghiacci dello Yukon in Canada o Into the eternity di Michael Madsen (2010), in cui il problema delle scorie nucleari viene affrontato mostrando l’attività del sito di stoccaggio di Onkalo, presso la centrale nucleare di Olkiluoto in Finlandia. Chasing Ice di Jeff Orlowski (2010) fotografa perfettamente il dramma dello scioglimento dei ghiacciai, mentre AntropoceneThe Human Epoch è, a tutti gli effetti, il documentario più compiutamente centrato sulle domande del presente: “Qual è l’impatto dell’uomo sul pianeta? Cosa è accaduto sulla Terra dopo la comparsa del genere umano?”. Frutto della collaborazione tra Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier e il fotografo Edward Burtynsky, quest’opera del 2018 mostra quanto l’impatto dell’uomo sia stato determinante nella “mutazione naturale” avvenuta nel corso dei secoli compromettendo gli equilibri di terra, aria e acqua.

È un altro filone, tuttavia, a mostrare in forma iperbolica la degradazione della qualità umana, la crisi energetica, gli effetti dello sfruttamento delle risorse. La saga di Mad Max di George Miller, apertasi nel 1979 con Interceptor (nella “traduzione” italiana) e proseguita fino a Mad Max: Fury Road del 2015, quella di Matrix delle sorelle Wachowski, il sequel di Blade Runner diretto da Denis Villeneuve nel 2017 (Blade Runner 2049): ognuna di queste opere, nel lavorare sull’immaginario, svela i sensi di colpa che l’uomo nutre nei confronti del patrimonio ambientale, sottoposto a una massacro che pone interrogativi, richiede nuovi sguardi e equilibri rispetto al passaggio sulla Terra.

La lista di opere, arricchitasi negli ultimi anni complice la sensibilità dei movimenti ecologisti, sarebbe potenzialmente infinita. Vale la pena citare il caso di Don’t Look Up, scritto e diretto da Adam McKay nel 2021 in cui l’impatto astronomico è una potente allegoria del riscaldamento globale inquadrato in un’ottica di anestesia morale dei media e dei governi.

Ciò che occorre rilevare è che ogni immagine filmica, al pari dei procedimenti letterari, risulta la migliore chiave d’accesso all’invisibile, alla catastrofe che stiamo attraversando. Un grido d’allarme che fissa il trauma, lo sconcerto, l’urgenza di fare i conti con le nostre responsabilità.
Ginevra Amadio

Immagine in evidenza
“Blade Runner 2049” di Denis Villeneuve (screenshot)
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