Fabrizio De André (Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999) è stato un cantautore italiano.
Considerato uno dei più importanti, influenti e innovativi cantautori italiani, è conosciuto anche con l’appellativo di Faber che gli dette l’amico Paolo Villaggio, con riferimento alla sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell, oltre che per l’assonanza con il suo nome.
A cantare solo con la chitarra proverei la stessa sensazione che a mettermi alla pecorina nella fontana di De Ferrari a mezzogiorno.
Fabrizio De André. (15 marzo 2022). Wikipedia, L’enciclopedia libera. Tratto il 21 marzo 2022, 09:33 da //it.wikipedia.org/w/index.php?title=Fabrizio_De_Andr%C3%A9&oldid=126283295.
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Benedetto Croce diceva che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi, rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore.
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C’è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza [… ], il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare, è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni..
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Cantavo imitando Modugno e d’altronde come si poteva non subire la sua influenza?
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Caro Andrea, ti sono amico perché sei l’unico prete che non mi vuole mandare in paradiso per forza.
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Dal punto di vista della qualità, a parte il devastante spettacolo delle aree suburbane, la vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso. I sardi a mio parere deciderebbero meglio se fossero indipendenti all’interno di una comunità europea e mediterranea.
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Dopo che ci si prende a schiaffi per dieci anni o si diventa amici o ci si ammazza.
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Durante il rapimento mi aiutò la fede negli uomini, proprio dove latitava la fede in Dio. Ho sempre detto che Dio è un’invenzione dell’uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità… Ma, tuttavia, col sequestro qualcosa si è smosso. Non che abbia cambiato idea ma è certo che bestemmiare oggi come minimo mi imbarazza.
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Durante la guerra ero sfollato in Piemonte e per me Genova era un mito, qualcosa di straordinario. Quando a cinque anni la vidi per la prima volta me ne innamorai subito, tremendamente e alla prima partita della mia vita, Genoa-Sampierdarenese, sposai subito la squadra che portava il nome della mia città. Un amore che non ho mai tradito, il più solido della mia vita fatta di contraddizioni continue.
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E poi a un tratto l’amore scoppiò dappertutto.
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[Genova] [… ] è sempre stata così [multirazziale] fin dal Medioevo. Vorrei dire come Sarajevo. Già cinque secoli fa nessuno faceva caso se qualcuno portava il turbante. Genova è nata e cresciuta nel rispetto delle varie religioni. Non c’è mai stato un ghetto. La Chiesa ha avuto poco potere e anche l’Inquisizione. Non è mai esistita una sala della tortura a Palazzo Ducale. Non credo che fosse tanto una vocazione illuministica, quanto la necessità di aprirsi a tutti per interessi commerciali. I carugi son pieni di marocchini? Per Genova non è una novità.
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Genova è anche gli amici vivi che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pescuèi che, proprio come ne Il pescatore, hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare.
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Genova è bella, ti accorgi che è bella quando sei lontano.
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Genova è una città a vocazione democratica e liberale. È tollerante perché da sempre fa affari con tutti senza badare alla lingua, ai costumi, all’abbigliamento o al colore della pelle.
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Genova per me è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Oggi a me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei suo carruggi, gli esclusi che avrei poi ritrovato in Sardegna, le “graziose” di via del Campo.
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Gesù di Nazareth [… ] secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.
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I genovesi, si può dire da secoli, hanno avuto un rapporto speciale con la cultura francese, sia nella musica, ed è il caso degli chansonnier, sia nell’ebanisteria, con il barocchetto genovese.
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Io ho tentato in tutti i modi di poter essere un uomo. Avrei potuto esprimermi per esempio attraverso la coltivazione dei fiori se fossi vissuto ad Albenga, oppure attraverso l’allevamento delle vacche se non mi avessero venduto di soppiatto una fattoria che avevano i miei nel ’54. Mi è accaduto di fare il cantautore. Il fatto di diventare un artista, in qualche maniera, ti impedisce di diventare uomo in maniera normale. Quindi credo che ad un certo punto della tua vita tu devi recuperare il tempo che hai perduto per fare l’artista per cercare di diventare un uomo.
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[Preghiera in gennaio] L’ho dedicata a Tenco. Scritta, o meglio pensata nel ritorno da Sanremo dove c’eravamo precipitati io, la mia ex moglie Enrica Rignon e la Anna Paoli. Dopo aver visto Luigi disteso in quell’obitorio (fuori Sanremo peraltro, perché non ce l’avevano voluto) tornando poi a Genova in attesa del funerale che si sarebbe svolto due giorni dopo a Cassine, mi pare, m’era venuta questa composizione.
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[Paolo Villaggio] L’ho incontrato per la prima volta a Pocol, sopra Cortina; io ero un ragazzino incazzato che parlava sporco; gli piacevo perché ero tormentato, inquieto ed egli lo era altrettanto, solo che era più controllato, forse perché era più grande di me e allora subito si investì della parte del fratello maggiore e mi diceva: “Guarda, tu le parolacce non le devi dire, tu dici le parolacce per essere al centro dell’attenzione, sei uno stronzo”.
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La fedeltà in fondo che cos’è? Non è altro che un grosso prurito con il divieto assoluto di grattarsi
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Mai visto un musicista comunicare col pubblico come sa fare Luciano.
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Mannerini mi ha insegnato che essere intelligenti non significa tanto accumulare nozioni, quanto selezionarle una volta accumulate, cercando di separare quelle utili da quelle disutili. [… ] Questa capacità di analisi, di osservazione, praticamente l’ho imparata da lui. Mi ha anche influenzato a livello politico, rafforzando delle idee che già avevo. Sicuramente è stata una delle figure più importanti della mia vita
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Non ho dubbi sul carattere totale che la lotta per l’indipendenza della Sardegna può assumere se si lavora in modo correttamente rivoluzionario. Perché la lotta di liberazione anticoloniale di un popolo ha carattere esemplare per tutti i colonizzati, anzi per tutti gli sfruttati del mondo… A Nuoro è cominciato un lavoro importante, mi pare, perché può incidere nel sociale… I segnali non sono da sottovalutare, perché una nuova realtà si muove oggi in Sardegna con l’esigenza di sprigionare le masse e dare a esse un respiro nazionale e internazionale. Poiché non posso fare a meno di dire che sono contro i piccoli e i grandi giochi di potere, contro le strozzature e i ritardi manovrati ad arte, sono fermamente convinto che la matassa Sardegna non si dipanerà certamente con i metodi semplici e imperturbabili del ricambio della presidenza del Palazzo. Occorre ben altro! Occorre che sia il popolo a modificare le cose. La Sardegna con una sua lingua una sua storia un suo territorio ha diritto a essere riconosciuta nazione.
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Non posso scrivere del Genoa perché sono troppo coinvolto. L’inno non lo faccio perché non amo le marce e perché niente può superare i cori della Gradinata Nord. Semmai al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo
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Non sei cattivo [Cristiano De André], sei proprio scemo!
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Per me Genova è come la madre, è dove ho imparato a vivere..
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Quando vado in pubblico ho molta paura di essere criticato. Controllare per esempio la muscolatura facciale, che dovrebbe essere il mestiere di un attore, è un fatto specifico, è un fatto di mestiere, preciso. Mettere la faccia davanti alle mie canzoni prima di tutto mi seccava perché mi sembrava che le mie canzoni rimanessero dietro la mia faccia, di cui non riuscivo a controllare la muscolatura, e in secondo luogo il fatto di non riuscire a controllarla mi dava anche questa preoccupazione. Nel senso che io non mi consideravo assolutamente un attore, cioè una persona adatta a fare vedere la faccia in una determinata maniera. Magari io dico “dormi sepolto in un campo di grano” e sto ridendo, ma non me ne accorgo, perché non sono abituato ad atteggiarmi a quello che sto dicendo. Perché io l’ho scritta quella canzone lì, non la dovevo recitare. Io non sono capace a recitare. Mi considero in qualche maniera uno che riesce a fare anche della musica per accompagnarsi i testi. Mi considero un suonatore di chitarra. Al di là di questo non vado. Non credo di essere l’interprete ideale delle mie canzoni. Perché per essere interprete bisogna essere qualche cosa di diverso. Io non credo di essere un interprete, perché bisognerebbe sempre avere la faccia del momento in cui si è scritto il verso. Del momento in cui lo sentivi. E non è che io scriva i versi davanti allo specchio. Anzi, io non mi piaccio mica tanto
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Quello che mi ha colpito del mondo dei carruggi è stata l’abitudine alla sofferenza e quindi la solidarietà. Erano solidali in qualsiasi occasione, perché si trattava di sottoproletariato, quindi neanche di una classe precisa, agguantabile da quelli che erano i partiti politici tradizionali, era un mondo che in qualche misura si difendeva dallo stato e quindi io ci ho sguazzato dentro. Avevo già delle idee politiche precise, ricavate da Brassens che ascoltavo dalla mattina alla sera, grazie ai dischi che mio padre mi portava dalla Francia, e lui descriveva questo mondo, questi personaggi emarginati che poi io ho ritrovato a Genova.
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Quello che io penso sia utile è di avere il governo il più vicino possibile a me e lo stato, se proprio non se ne può fare a meno, il più lontano possibile dai coglioni.
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Questa è una canzone che risale al 1962, dove dimostro di avere sempre avuto, sia da giovane che da anziano, pochissime idee ma in compenso fisse. Nel senso che in questa canzone esprimo quello che ho sempre pensato: che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire bene, malgrado i miei cinquantotto anni, cosa esattamente sia la virtù e cosa esattamente sia l’errore, perché basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa. Non parliamo poi dello spostarci nel tempo: c’erano morali, nel Medioevo, nel Rinascimento, che oggi non sono più assolutamente riconosciute. Oggi noi ci lamentiamo: vedo che c’è un gran tormento sulla perdita dei valori. Bisogna aspettare di storicizzarli. Io penso che non è che i giovani d’oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capir bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri.
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Questo nostro mondo è diviso in vincitori e vinti, dove i primi sono tre e i secondi tre miliardi. Come si può essere ottimisti?
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Riccardo Mannerini era un altro mio grande amico. Era quasi cieco perché quando navigava su una nave dei Costa una caldaia gli era esplosa in faccia. È morto suicida, molti anni dopo, senza mai ricevere alcun indennizzo. Ha avuto brutte storie con la giustizia perché era un autentico libertario, e così quando qualche ricercato bussava alla sua porta lui lo nascondeva in casa sua. E magari gli curava le ferite e gli estraeva i proiettili che aveva in corpo. Abbiamo scritto insieme il Cantico dei Drogati, che per me, che ero totalmente dipendente dall’alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. È una reazione frequente tra i drogati quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all’alcool la fantasia viaggiava sbrigliatissima.
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[… ] se io sono il liceo classico lui [Francesco De Gregori] è l’università.
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[Sul Festival di Sanremo] Se si trattasse ancora di una gara di ugole, [… ] si trattasse cioè di un fatto di corde vocali, la si potrebbe ancora considerare una competizione quasi sportiva, perché le corde vocali sono pure sempre dei muscoli. Nel caso mio, dovrei andare ad esprimere i miei sentimenti, o la tecnica attraverso i quali io riesco ad esprimerli, e credo che questo non possa essere argomento di competizione.
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Se una voce miracolosa non avesse interpretato nel 1967 La canzone di Marinella, con tutta probabilità avrei terminato gli studi in legge per dedicarmi all’avvocatura. Ringrazio Mina per aver truccato le carte a mio favore e soprattutto a vantaggio dei miei virtuali assistiti.
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Si lamentano degli zingari? Guardateli come vanno in giro a supplicare l’elemosina di un voto: ma non ci vanno a piedi, hanno autobus che sembrano astronavi, treni, aerei: e guardateli quando si fermano a pranzo o a cena: sanno mangiare con coltello e forchetta, e con coltello e forchetta si mangeranno i vostri risparmi. L’Italia appartiene a cento uomini, siamo sicuri che questi cento uomini appartengano all’Italia?
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Tutte le sere quando finisco un concerto desidererei rivolgermi alla gente e dire loro: “tutto quello che avete ascoltato fino adesso è assolutamente falso, così come sono assolutamente veri gli ideali e i sentimenti che mi hanno portato a scrivere queste cose e a cantarle”. Ma con gli ideali e con i sentimenti si costruiscono delle realtà sognate. La realtà, quella vera, è quella che ci aspetta fuori dalle porte del teatro. E per modificarla, se vogliamo modificarla, c’è bisogno di gesti concreti, reali.
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Vengo da Amburgo, vengo da Francoforte, vengo dalla Sardegna ma vengo soprattutto da Genova. Genova, che tutte le volte che ti ci trovi fuori ti rendi conto che è una città soprattutto da rimpiangere. Nel senso che ci nasci e ci vivi fino a vent’anni – dove un nostro amico poeta diceva che si arde di inconsapevolezza – poi a vent’anni cerchi di trovare lavoro e [… ] ti rendi conto che è difficile lavorarci. Allora te ne vai. E dopo che te ne sei andato cominci a rimpiangerla.