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Formazione e istruzione: a che punto siamo in Italia?

Formazione e istruzione: a che punto siamo in Italia?

Come si colloca il nostro Paese sullo scacchiere competitivo del futuro, rispetto alle altre realtà europee? Quali sono i punti di forza e quali le debolezze del nostro sistema di istruzione? E cosa, come, dovrebbe cambiare affinché si possa contribuire davvero all’economia della conoscenza?

Il punto di fuga verso il quale tutti questi interrogativi sembrano convergere, o dal quale potrebbero provenire, è l’indagine “Istruzione e futuro: un gap da colmare” realizzata per la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dall’Istituto Carlo Cattaneo.
Il quadro che ne emerge dipinge il nostro Paese come sostanzialmente cristallizzato, nei suoi problemi di fondo, all’inizio della sua storia unitaria: mentre, infatti, il passaggio dal 31.2% di alfabetizzati nel 1871 al 98.6% del 2001 è un successo tanto indubbio quanto atteso e in un certo senso scontato, dal punto di vista dei doveri di uno Stato moderno, “le recenti indagini sull’analfabetismo di ritorno e sull’analfabetismo strumentale che collocano l’Italia tra i paesi OECD più arretrati sono un chiaro indicatore delle lacune del sistema formativo nazionale”.
Sfiora infatti il 30% la quota di italiani tra i 25 e i 65 anni fortemente limitata nelle competenze di comprensione, lettura e calcolo (peggio di noi solo Turchia e Cile).
“La mancanza di strumenti adatti a comprendere la realtà che circonda le persone o la mancanza di strumenti culturali e tecnici che permetta di relazionarsi profittevolmente coi mercati del lavoro è un importante limite del nostro sistema”.
Il divario di alfabetizzazione presente all’Unità si è, quindi, perpetuato “non in termini di alfabetizzazione strumentale quanto in termini di acquisizione di capitale umano e di quelle competenze necessarie nell’attuale economia”.

Ma non solo: restano insoluti a livello sistemico alcuni problemi e meccanismi che continuano a minare le possibilità di crescita della società: “Il sistema scolastico è rimasto fortemente sotto-finanziato sin dai suoi albori, sia in termini di dotazione di personale che nei livelli stipendiali e di spesa per studente. Proprio il basso stipendio di insegnanti e docenti ha reso la professione dell’insegnamento un lavoro ‘di ripiego’ da altre professioni e un lavoro ‘di genere’”. Inoltre, come mostrato dalla ricerca, non solo il nostro sistema formativo (tanto in ingresso quanto in uscita) è afflitto da un generale basso livello delle performance ma è anche attraversato da quattro forti spaccature: il divario tra licei e altri istituti, quello tra Nord e Sud e tra maschi e femmine.

Tenendo presente che “l’istruzione è uno dei pilastri della accumulazione del capitale umano e il capitale umano è uno dei principali motori della crescita economica in un sistema internazionale di libero scambio e concorrenza tra Paesi”, non è difficile immaginare il prezzo di un’arretratezza in tal senso. Sono tre i gruppi di costi sociali legati ai bassi livelli di istruzione: “In primo luogo, una bassa scolarizzazione determina costi a livello individuale: esclusione sociale, insicurezza, mancanza di autonomia, precarietà. In secondo luogo, i costi sociali propriamente definiti: scarsa partecipazione al processo democratico, criminalità, maggior spesa per la salute. Infine, i costi economici: livello di sviluppo limitato, bassa propensione all’innovazione, scarsa produttività”.

Il ritardo italiano nello sviluppo di capitale umano risulta essere “sia causa che effetto di un sistema economico il cui premio per la competenza è nettamente minore che in altri Paesi”: “la scarsa remunerazione del capitale umano disincentiva l’investimento nello stesso e la mancanza di crescita nelle competenze insieme allo scarso livello di istruzione della popolazione nel suo complesso sono tra i principali limiti della stagnazione economica degli ultimi 20 anni”. Infine, “la scarsa crescita del Paese si riflette nelle opportunità occupazionali per le nuove generazioni, che risultano essere inferiori a quelle dei pari età in quasi tutti i paesi OCSE”. Facile trarre le conclusioni: “lo scarso premio per l’istruzione e i relativamente bassi livelli occupazionali si traducono in una maggiore presenza di NEET (“Not engaged in Education, Employment or Training”, ovvero persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione) all’interno del sistema Italia rispetto al resto d’Europa”.

Tutto questo si colloca nel contesto della nuova economia della conoscenza, affiorata a metà degli anni Ottanta e consolidatasi negli anni Duemila, insieme al dispiegarsi della “quarta rivoluzione industriale”, digitale e robotica. “La richiesta sempre maggiore e sempre più specialistica di capitale umano, una sempre maggiore compenetrazione e scambio di tecnologia e lavoratori tra Paesi, (…) stanno fortemente mettendo sotto pressione non solo i mercati del lavoro e dei beni ma l’intero assetto economico e formativo delle moderne nazioni”.

Una ridefinizione così radicale delle necessità di conoscenza e formazione impone con urgenza un adeguamento del sistema educativo che, tuttavia, nel nostro Paese ancora non c’è stato: l’obiettivo non è più, infatti, quello di alfabetizzare le masse bensì quello di innalzare il livello della formazione, selezionare le eccellenze e premiare il merito, incoraggiando l’impegno in tal senso da parte dei giovani e incentivando i policy maker a investire risorse e consenso politico nel sistema d’istruzione, a lungo termine e non badando esclusivamente al ritorno immediato (che in questo settore non esiste). Solo così si può tornare a guardare al futuro come promessa e non minaccia.

E proprio di questo si è parlato durante il secondo appuntamento del percorso d’indagine “Le conseguenze del futuro“, organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, in collaborazione con Eni, e che ha coinvolto il filosofo e psicanalista Miguel Benasayag, il Rettore dell’Università di Milano Bicocca Maria Cristina Messa e, per una testimonianza di buone pratiche, Silvia Panzavolta, responsabile del progetto Making Learning and Thinking Visible in Italian Secondary Schools (MLTV) dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), promosso in collaborazione con l’Harvard Graduate School of Education. A moderare, come di consueto, il conduttore e autore radiofonico e teatrale Matteo Caccia, che ha iniziato leggendo da un testo del patrimonio della Fondazione: “La scuola come liberazione”, da I quaderni di Corea, di Mario Lodi.

Che tipo di formazione ci consente, oggi, di realizzare noi stessi come individui e crescere come società?
Questo l’interrogativo di partenza, al quale Miguel Benasayag ha risposto ponendo l’accento sullo statuto stesso dell’idea di formazione, da intendere non più come mero sinonimo di “competenze” o di “informazioni utili” bensì come qualcosa di premio a se stessa, una condizione essenziale per esistere nella società e non limitarsi a “funzionare bene”: “basta fare e pensare solo ciò che è ‘utile per’ qualcuno o qualcosa: ogni vita che diventa transitiva per altro è una vita oppressa”. E ha richiamato l’attenzione su un altro cambiamento antropologico cruciale: “di fronte al fallimento del modello razionale cartesiano e kantiano, abbiamo delegato la funzione razionale alle macchine, convinti che possano funzionare meglio di noi perché, prive di corpo, non hanno emozioni, pulsioni, conflitti.
Crediamo di poter modellizzare le nostre funzioni cerebrali e trasferirle alle macchine, che riteniamo siano diverse solo quantitativamente e non qualitativamente: nessuno sembra preoccuparsi del pivot evolutivo che stiamo vivendo, in cui sempre più velocemente e senza tempo di adattamento l’umano si sta lasciando colonizzare dalle macchine, invece di ibridarsi con esse e creare insieme una realtà nuova”.
Una condizione, questa, che si ripercuote inevitabilmente su come intendiamo la formazione: nella convinzione che il tempo non sia mai abbastanza, che si debba sempre essere in rincorsa, “schiacciamo tutta la ricchezza delle esperienze, della creatività, della sperimentazione, sulla trasmissione orizzontale di informazioni, di competenze, usando il cervello come un hard disk su cui continuamente scrivere e cancellare dati, meccanicamente.
Ma un popolo semplicemente ‘informato’ non è in grado di capire la realtà né di reagire: in realtà più siamo informati più siamo impotenti. Gli individui serializzati e informati fanno esperienza solo della loro impotenza”.

Come reagire a questa dittatura del “non c’è abbastanza tempo”? Il filosofo non ha dubbi: “In una società che, temendo il futuro, vive nella paura e rompe i propri legami sociali, dobbiamo cercare di resistere al timore, alla credenza che il futuro sarà peggiore: senza essere ottimisti in modo naïf, occorre mettere tra parentesi il futuro e abitare il presente, capire cosa dobbiamo fare qui ed ora, tralasciando la promessa o la minaccia del domani.
E tornando a pensare e vivere fuori sincrono rispetto alla velocità imposta al mondo dalla tecnologia: se alieniamo il tempo dell’umano, della cultura, al tempo della macchina, perdiamo tutto”.

fondazionefeltrinelli.it
#conseguenzedelfuturo

Ufficio Stampa: Ex Libris Comunicazione

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